LA SCOMMESSA DI PROMETEO
Lascia un commento25 gennaio 2015 di vincenzosardiello
Nono appuntamento con le Operette Morali di Giacomo Leopardi. “La scommessa di Prometeo” è stata composta nella primavera del 1824 a Recanati.
Gli dei bandiscono un concorso sulle invenzioni più utili per il mondo con in palio un ramo d’alloro.
“fu aggiudicato questo premio, senza intervento di sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né di artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per l’invenzione del vino; Minerva per quella dell’olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno quotidianamente uso dopo il bagno; e Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica, che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente. Così, dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono così la parte come il tutto; perché Vulcano allegò che stando il più del tempo al fuoco della fucina con gran fatica e sudore, gli sarebbe importunissimo quell’ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura qualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi mettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere in sul capo un elmo bastante, come scrive Omero, a coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva aumentarsi questo peso in alcun modo. Bacco non volle mutare la sua mitra, e la sua corona di pampini, con quella di lauro: benché l’avrebbe accettata volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua taverna; ma le Muse non consentirono di dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro comune erario“.
In tre si aggiudicano il premio: Bacco per il vino, Minerva per l’olio e Vulcano per la pentola in rame.
Si noterà che i tre premi fanno riferimento a vizi: il vino all’eccesso del piacere, l’olio alla vanità e la pentola all’eccesso della gola. In altre parole ciò che per l’Olimpo è oggetto di lode, sulla terra è considerato peccato.
Si comprende facilmente che il controcanto non può che essere rappresentato da Prometeo, colui che incarna in pieno lo spirito di ribellione verso gli dei, o meglio, verso qualsiasi entità assolutistica.
“Niuno dei competitori di questo premio ebbe invidia ai tre Dei che l’avevano conseguito e rifiutato, né si dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che fu Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il modello di terra che aveva fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava le qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da esso. Muove non poca maraviglia il rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, che da tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò investigandone la cagione, si è conosciuto che quegli desiderava efficacemente, non già l’onore, ma bene il privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria“.
Prometeo pensa che la migliore e più utile delle invenzioni sia l’uomo. Poco importa se il premio poi risulterà inutile anche a lui. E’ oltraggiosa l’esclusione della sua creazione.
“E parendogli non persuaderlo bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che ragioni in contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente verso la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinque parti di quella scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che l’uomo sia la più perfetta creatura dell’universo Il che accettato da Momo, e convenuti del prezzo della scommessa, incominciarono senza indugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primieramente al nuovo mondo; come quello che pel nome stesso, e per non avervi posto piede insino allora niuno degl’immortali, stimolava maggiormente la curiosità“.
La sua protesta non viene compresa, lancia allora una scommessa con Momo, figlio della notte, e i due partono alla volta della Terra per trovare le prove sulle affermazioni di Prometeo.
Il primo luogo in cui si recano è il Nuovo Mondo, quello più selvaggio, privo di civiltà. E fanno una amarissima constatazione.
“Selvaggio. Si mangia, come vedi.
Prometeo. Che buone vivande avete?
Selvaggio. Questo poco di carne.
Prometeo. Carne domestica o salvatica?
Selvaggio. Domestica, anzi del mio figliuolo.
Prometeo. Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
Selvaggio. Non un vitello ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.
Prometeo. Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?
Selvaggio. La mia propria no, ma ben quella di costui che per questo solo uso io l’ho messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.
Prometeo. Per uso di mangiartelo?
Selvaggio. Che maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso di mangiarla presto.
Momo. Come si mangia la gallina dopo mangiate le uova.
Selvaggio. E l’altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se io campo.
Prometeo. Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche altra?
Selvaggio. D’un’altra.
Prometeo. Molto lontana di qua?
Selvaggio. Lontanissima: tanto che tra le loro case e le nostre, ci correva un rigagnolo. E additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito dov’ella era; ma i nostri l’hanno distrutta“.
L’uomo selvaggio, senza l’ombrello della civiltà e delle convenzioni è un animale incontrollabile capace persino di mangiare i suoi simili pur di riempire la propria pancia.
I due fuggono. Ma i loro incontri negativi continuano.
“si volse incontanente al più vecchio, voglio dire all’Asia: e trascorso quasi in un subito l’intervallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambedue presso ad Agra in un campo pieno d’infinito popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sull’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il fuoco; e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza.”
Prometeo cerca conferme nella tradizione storica, nei popoli che più hanno dato un contributo alla crescita dell’umanità. Non esiste un luogo più indicato dell’Asia. Qui si imbattono in un rito barbaro. Una donna stordita dall’alcool sta per essere bruciata viva insieme alle spoglie mortali del suo defunto marito. La tradizione diventa tragedia.
I due decidono di andare nel luogo della piena civiltà. Si ritrovano a Londra in una casa alto borghese dove si dà l’estremo saluto a un signore.
“Prometeo. Chi sono questi sciagurati?
Un famiglio. Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo. Chi gli ha uccisi?
Famiglio. Il padrone tutti e tre.
Prometeo. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso? Famiglio. Appunto.
Prometeo. Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.
Famiglio. Nessuna, che io sappia.
Prometeo. Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?
Famiglio. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto favore.
Prometeo. Dunque come e caduto in questa disperazione?
Famiglio. Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.
Prometeo. E questi giudici che fanno?
Famiglio. S’informano se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non ricada.
Prometeo. Ma, dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini, in cambio d’ammazzarli?
Famiglio. Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, né spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa“.
Si può notare a questo punto che le tre vicende narrate rispecchiano l’altro lato dei tre premi assegnati: il cannibalismo la gola, che si rifà all’invenzione di Vulcano, la donna arsa viva al vino, l’ubriacatura obnubila la volontà, la vanità al signore che decide di farla finita per dimostrare la sua superiorità al mondo.
In tutti e tre i casi domina l’elemento del fuoco. La carne cotta sul fuoco, la donna data alle fiamme, l’uomo che uccide e si uccide con il fuoco di una rivoltella. Il fuoco, che Prometeo aveva sottratto agli dei per restituirlo agli uomini, diventa oggetto di morte e non di vita. Probabilmente è questa la constatazione più amara.
Cannibalismo, violenza e noia, sono gli elementi che rendono gli uomini l’invenzione più utile dell’Olimpo? Sicuramente no, infatti Prometeo paga la sua scommessa senza fiatare.
Amarissima la considerazione di Momo sul genere umano:
“Momo. Io per me non veggo, se gli uomini sono il più perfetto genere dell’universo, come faccia di bisogno che sieno inciviliti perché non si abbrucino da se stessi, e non mangino i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorché la fenice, che non si trova; rarissimi si mangiano alcun loro simile; e molto più rari si cibano dei loro figliuoli, per qualche accidente insolito, e non per averli generati a quest’uso. Avverti eziandio, che delle cinque parti del mondo una sola, né tutta intera, e questa non paragonabile per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle di un’altra parte del mondo. E già tu medesimo non vorrai dire che questa civiltà sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadelfia abbiano generalmente tutta la perfezione che può convenire alla loro specie. Ora, per condursi al presente stato di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hanno dovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti si possono numerare dall’origine dell’uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che erano o di maggiore necessità o di maggior profitto al conseguimento dello stato civile, hanno avuto origine, non da ragione, ma da casi fortuiti: di modo che la civiltà umana è opera della sorte più che della natura: e dove questi tali casi non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se l’uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a qualunque altro animale; se la civiltà, che è l’opposto della barbarie, non è posseduta né anche oggi se non da una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto che di alcun’altra cagione; all’ultimo, se il detto stato civile non è per anche perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il genere umano fosse più vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezione, piuttosto che nella perfezione; quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino continuamente l’una coll’altra; argomentando da certi cotali presupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di creature fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso. E quando eziandio non fosse chiaro che l’uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che l’essere naturalmente imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia l’uomo, s’abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l’altre. Aggiungi che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere: come in effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne avevano acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe avere adoperato quando formò il primo asino o la prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l’uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili. Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta, precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede: perché in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva“.
Le invenzioni frutto del caso, l’abbrutimento proprio dello spirito umano. Un ritratto impietoso e ingeneroso della specie misurata nei suoi limiti.
All’uomo agire perchè questa realtà diventi il migliore dei mondi possibili.
L’uomo deve ricominciare a credere nelle proprie capacità e utilizzare ciò che possiede per il bene dei suoi simili. Non è un caso se l’unico a salvarsi è il cane, l’unico che ha una fede cieca nella bontà dei suoi padroni.