RELAZIONE CRITICA PROF. GIOVANNI DI NOI

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14 dicembre 2014 di vincenzosardiello

locandinaBellissima serata alle Cantine San Pancrazio in compagnia di “Racconti in punta di Cravatta”. Un grazie di cuore al padrone di casa Avv. Tommaso Conte, al relatore della serata prof. Giovanni di Noi, al compagno di viaggio Pietro Filomeno, alla straordinaria Alessandra Mandese, al bravissimo Antonio Argentieri, all’amico Pisso e ai vini eccezionali delle Cantine. A seguire riporto la relazione critica del prof. Giovanni di Noi che ha analizzato in profondità il libro.  Buona lettura.

Racconti in punta di cravatta

Il libro che presentiamo questa sera, Racconti in punta di cravatta di Vincenzo Sardiello, si lascia apprezzare per vari motivi e sotto molteplici aspetti.

In quarta di copertina leggiamo che Racconti in punta di cravatta è il suo debutto letterario e noi auguriamo all’autore, dato l’inizio promettente, che ci continui a interessare con nuove creazioni. Siamo sempre ben lieti di ospitarlo.

Nella lettura si osserva un modulo di narrazione essenziale. Periodi brevi, costituiti a volte da una sola parola, ma capaci di manifestare, ovviamente in maniera implicita, l’avvicendarsi e il susseguirsi delle azioni, la presentazione dei fatti, delle circostanze che in modo vorticoso compongono e dipanano la struttura del racconto.

Ciò conferisce sicuramente speditezza alla narrazione e dà una fisionomia particolare a quello che si vuol dire. Ovviamente non s’intende affermare che questo è il modo o l’unico modo di scrivere, ma semplicemente che ognuno ricerca, nel dire le cose, quella modalità che più si attaglia alla natura e al magma di pensieri che intende esprimere, oltre che alla necessità di farli nascere quanto prima possibile sulla carta. L’autore ha pensato di scegliere questo modo e, in molte pagine, l’effetto è veramente sorprendente, come pure sorprende l’uso frequente dell’anafora in funzione espressiva.

Ma la sorpresa più grande che si apre agli occhi del lettore è l’impressionante attualità delle tematiche e dei contenuti espressi. Cosa non facile, a pensarci bene. È più agevole raccontare cose accadute in tempi lontani, la cui verificabilità può non richiedere un particolare rigore. Ma di fronte al quotidiano è più difficile mantenere il confronto e il distacco, scandire gli attimi, fissare i ruoli. E, invece, i personaggi dei Racconti in punta di cravatta sono persone vive che incontriamo tutti giorni, con i problemi descritti e le personalità illustrate. I personaggi, infatti, tracimano dagli argini letterari per diventare tipi di vita.

Ognuno potrà individuare in essi aspetti e fisionomie, volti e comportamenti, paure e tristezze, qualche volta anche felicità o gioia, ma ci si accorgerà che nei racconti la vita nella sua intima varietà è letteralmente seminata. Di fronte alla loro variegata composizione, ho pensato di avvalermi, nel presentare il libro, di un metodo che raccolga l’essenza di quanto si è cercato di dire e, nello stesso tempo, faccia emergere la vitalità espressiva e tematica della narrazione.

Ho scelto l’analisi del lavoro per categorie e tra queste ho considerato “la solitudine”, “l’inquietudine” e la “desolazione”, perché mi sono sembrate paradigmatiche per comprendere la vita interiore dei personaggi. Non ci si lasci ingannare dalla patina di tristezza che accomuna questi termini. Tolstoj apre Anna Karenina in questo modo: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, quelle infelici lo sono ognuna a modo proprio” e aggiungo che descrivere la felicità è relativamente semplice; difficile, invece, diventa descrivere l’infelicità (al peggio non c’è mai limite, diremmo). Nel nostro caso, bene ha fatto, l’autore a non attardarsi dietro quadri edulcorati di facile quiete sociale o familiare, avrebbe rischiato di cadere nel banale. Ha tratteggiato, invece, quelle pieghe nascoste dell’animo umano che rendono il reale spessore della vita. Paradossalmente quei tre termini, solitudine, inquietudine e desolazione danno forza all’esistenza, più di quanto non ne dia la gioia ed è da essi che impareremo a conoscere l’uomo. Per tornare all’assunto Di Tolstoj diremmo che gli uomini felici, bene o male, si assomigliano tutti, ma gli infelici si distinguono tra loro per le sfumature, i vari gradi e le varie situazioni di infelicità.

E allora passiamo all’analisi di queste categorie e attraverso la loro analisi al valore del testo.

Solitudine

Prendiamo in considerazione, a mo’ di esempio, qualche racconto, perché si capisca come operare e come porsi di fronte alla lettura.

“La donna della domenica pomeriggio”

Il personaggio è appunto una donna, Giovanna, bella, colta, innamorata di un uomo più anziano di lei che appartiene a un’altra donna, ha un lavoro, ma fondamentalmente è sola. La sua vita si anima, per poche ore, solo la domenica, quando riceve in casa sua l’amante. Per il resto i suoi giorni sono vuoti e insignificanti. A lei non mancherebbero, se solo lo volesse, le amiche, non mancherebbe neppure l’amore, la gratificazione del lavoro, ma ciò che cerca non è ben definibile e ancor meno comprensibile. Il suo tormento, pur tangibile, è colorato di inesorabilità e una sola cosa è reale: la sua solitudine, che come dice l’autore “…è totalizzante”.

Ed è vero, perché questa categoria dell’esistere connota la nostra contemporaneità: come tale, infatti, diventa un motivo ricorrente in quasi tutti i personaggi dei vari racconti ed è già un merito della scrittura averlo individuato.

Ad esempio, nella commedia “Il Cappio e il sorriso” la solitudine diventa la regola che sconvolge la vita di persone che noi riterremmo fortunate e felici, ma che così non è. Umberto e Carla sono all’apparenza una coppia come tante, ma tra loro non c’è più quell’intesa che li ha portati a stare insieme. Le motivazioni sono le più varie, ma soprattutto Umberto ha la vocazione della solitudine, Carla, invece, cerca di sfuggire alla solitudine. Umberto è uno psichiatra, assorbito tanto dal proprio lavoro da trascurare la propria compagna, pur amandola tanto. Egli riesce a gestire egregiamente le situazioni legate al proprio lavoro, ma non quelle della vita. Carla dal canto suo ha anche molto da farsi perdonare, perché non è immune da errori anche lei. Una situazione, dunque molto problematica.

 Umberto riceve per visite due pazienti, Sergio e Patrizia, le cui vite sono distrutte da separazioni pregresse dai rispettivi coniugi. I due pazienti sono sempre stati ricevuti in orari e giorni differenti e dunque non si conoscono, in comune hanno solo l’epilogo delle loro esperienze. Per strane vicissitudini che ovviamente costituiscono la trama della commedia, si incontrano a casa di Umberto e Carla e mentre questi ultimi si separano e in un certo senso moltiplicano le loro solitudini, Patrizia e Sergio, invece, sconfiggono le loro solitudini, mettendosi insieme.

In un caso e nell’altro siamo di fronte ai naufragi della vita: fortunato è colui che, mentre naufraga, riesce a cogliere quanto più materiale possibile per costruire una nuova zattera sulla quale continuare il viaggio. Il viaggio è il fine ultimo, l’impegno più importante. È nel viaggio che poniamo le nostre attese più recondite, i nostri desideri più inconfessati, le nostre paure più cupe, ma anche le nostre speranze più rosee.

Il viaggio è la metafora della vita. Il viaggio è la vita: senza, non ci saremmo, né avrebbe senso esserci.

Patrizia e Sergio sono riusciti a costruire la loro zattera, non così Umberto e Carla. Per loro la solitudine è quello spazio immenso, privo di orizzonti, nel quale annegano, nonostante li circondi una pluralità di simili, nonostante l’incontenibile serie di tentativi che questi pongono in atto per mettersi in relazione con loro.

A Umberto e Carla non mancano gli amici, ma dal racconto emerge che non basta vivere con gli altri per affermare che non si è soli. La solitudine è esistenziale, proprio perché coinvolge ogni aspetto della nostra esistenza.

Si badi bene, non ho detto della nostra vita, giacché l’esistenza è un concetto più dinamico di quello di vita.

 Mentre la vita sa di privato, di personale, di ambito, legata a un microcosmo che trova spesso la ragione esplicativa in sé, l’esistenza è più coinvolgente, più legata a un macrocosmo dalle variegate movenze, sa più di complicità, proprio perché presuppone la relazione con gli altri simili e, particolare non trascurabile, con le cose.

La questione, vista in questi termini è un dramma, la solitudine è un tarlo tremendo, che estenua, che debilita e che paradossalmente crea assuefazione: i personaggi, infatti, dimostrano che più si è soli, più si fuggono gli altri, più si ha bisogno di solitudine.

Potete leggere, aprendo il libro, questo stato di sofferenza che descrive la condizione dei vari vissuti, delle situazioni, degli stati d’animo. Vi sentirete spesso chiamati in causa, o perché riuscite a vedere in essi una parte di voi o di persone che conoscete, o perché forse voi in quelle situazioni vi sareste comportati diversamente, dico forse, avreste preferito una soluzione diversa al problema presentato; oppure vi sembrerà che aleggi un’aria di cocente pessimismo che avvolge gli stessi personaggi.

 Beh, sì, tutto è possibile, ma le cose sono andate così, proprio come le descrive l’autore e nessuno ci può fare nulla, neppure l’autore stesso: tutto è legato inesorabilmente alle leggi dell’esistenza. Ho letto il libro con quest’ottica, proprio per dare valore a quegli spunti creativi che ci accostano in maniera pressante al quotidiano. Una cosa è possibile: pensare, meditare, affinché ciò che ci fa star male non accada o, almeno, se è accaduto, non accada più. Ma c’è da chiedersi: “Questo, poi, è veramente possibile? Può dare una soluzione al problema?”

Inquietudine

Ne “L’incontro”, la solitudine di Mattia si trasforma in Inquietudine. Ecco un’altra categoria che accompagna i personaggi.

In una sera umida e piovigginosa, per una pura combinazione tra le tante che la casualità offre, Mattia trova la ragazza che cerca, Marta, anzi per essere corretti è trovato da lei, e l’incontro dà una dimensione alla sua ricerca e finalmente uno stacco. Non attendeva altro. Non desiderava altro, lui che, per il resto, mostrava un’intransigenza culturale e una solitudine per vocazione che lo tenevano al riparo da incontri e relazioni non calibrate.

Ma quando sembra che la sua vita abbia trovato un assetto quasi definitivo, persino rassicurante, ecco la svolta, non cercata, non voluta: Marta scompare, va via. A lei è bastato averlo amato una notte.

Vedete? Marta è come Mattia: entrambi pervasi da quell’inquietudine che la vita spesso appiccica addosso agli esseri umani. Rimane un po’ di amaro in bocca, ma, ancora, questa è la vita. 

Desolazione

Anche il racconto “La famiglia di Matilde” descrive un vuoto incolmabile che fa della protagonista una donna sola e desolata.

Una sottile vena ironica serpeggia per tutto il racconto e nonostante la gravità dei fatti narrati (non molto rari, a dire il vero, oggi: “Il marito della donna ammazza i due figli e poi se stesso”), c’è una leggerezza, nella loro presentazione, che stempera l’insanabile tragedia, pur portando la donna alla pazzia. Ma la pazzia di Matilde è, tutto sommato, un episodio derubricato dalla esistenziale sofferenza, per assurgere a un moto di routine che nulla ha a che vedere con la tragedia che l’ha segnata.

In realtà continua a fare quello che ha sempre fatto, in una dimensione unica, irriferibile a situazioni o persone a lei legate, proprio perché profondamente inquieta, sola e desolata.

 

Altra prospettiva nel racconto “Un critico d’arte”, ma, tutto sommato, la conclusione non lascia speranze. Paolo è un critico d’arte di fama assodata e riconosciuta, esperto delle opere di Lucio Fontana. Anche lui è un uomo solo e, nella solitudine che non ammette vie d’uscita, si articola l’insoddisfazione e l’irresolutezza del suo progetto esistenziale.

In lui c’è la boria di chi sa di sapere e non accetta che altri possano capire o aver capito qualcosa di nuovo che lui non ha contemplato; c’è l’assolutezza patologica di chi non ammette che, in fin dei conti, quel che si sa è solo una parte infinitesimale della conoscenza; c’è il dramma della consapevolezza, non accettata, della propria fragilità e della fragilità del proprio sapere; un sapere che non ammette contraddittorio o alternativa. Un sapere malato.

E quando tutto sembra rientrare nell’ordinario ritmo della vita, ecco la sua solitudine trasformarsi in “desolazione”. Non gli resta che porre fine alla sua vita.

Ha un bel fare a leggere in maniera elettiva The waste land di Thomas S. Eliot, La terra desolata, la desolazione abita già in lui e non c’è alcun bisogno di andarla cercare fuori.

Così anche nel racconto “La prima vita di Cristina” e ancor più nel dramma “Scacco al re”, dove è descritta la seconda vita di Cristina. In esso si consuma, come spesso accade nella vita, l’ultimo atto di un’esistenza infelice, metafora molto esplicita di problematiche attualissime, al di là del groviglio affettivo, anch’esso di urgente quotidianità. Cristina è malata e si accorda col proprio medico, compiacente, per dare un taglio alla propria vita con un’iniezione letale.

Alberto, il marito di Cristina, ha impostato tutta l’esistenza sul tradimento, sul disinteresse per la famiglia, su scelte molto discutibili. Insomma, una vita spesa nel disordine e nell’abbandono, all’ombra di una carenza valoriale che ha debilitato il rapporto non solo con la moglie, ma anche col figlio, l’unica figura positiva nella famiglia.

Nella prima vita Cristina, aveva amato Amleto, il quale, raggiunta la felicità con lei, vuole sconfiggere la morte e per tutta risposta, al colmo della felicità, decide deliberatamente di togliersi la vita. L’atto estremo, così architettato, gli appare come il modo di stabilire il dominio su tutto, compresa la morte.

Nella seconda vita Cristina ripete l’esperienza di Amleto, ma in una condizione differente. Mentre Amleto era al culmine della felicità, Cristina è al culmine della desolazione e, nel disprezzo di un marito distratto e infido, lascia volentieri la vita, senza alcun rammarico: “Quando non ci sarò più, – dice – qualcuno piangerà per un po’, ma dopo la vita continuerà. Sarà stata una vita senza traccia la mia. Una vita inutile”.

Ma né l’atto di Amleto né quello di Cristina, pur nella desolante inquietudine, vanno visti come sacrifici. Tutt’altro. C’è la voglia e, a volte, la presunzione di mutare gli orizzonti dei destini, ma spesso, come dice l’autore, “pur cambiando le cause, non riusciamo a incidere sugli effetti”, e un’incontestabile conclusione tarpa inesorabilmente le ali alle nostre speranze.

 Meglio non affannarsi, non pretendere nulla, consapevoli che non servirebbe neppure rivivere la nostra vita, commetteremmo gli stessi errori.

E allora, che cosa resta? Signori, solo la magia del racconto, dell’affabulare, del dare vita a qualcosa che diversamente non sarebbe mai emerso, a qualcosa che viene detta, perché andava detta, a qualcosa che esisteva anche prima di esser detta e perché si è atteso che venisse chi doveva dirla.

Il bello consiste nel fatto che dopo aver detto quello che si doveva, noi possiamo anche scomparire, ma non scomparirà mai quello che abbiamo detto. E così, paradosso dei paradossi, noi, esseri finiti, prigionieri del tempo, diamo vita a qualcosa di eterno che prevarrà per sempre sulla nostra gioia e sulle nostre miserie.

Prof. Giovanni di Noi

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