STORIA DEL GENERE UMANO

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20 novembre 2014 di vincenzosardiello

George Grosz - La danza dell'uomo grigio

George Grosz – La danza dell’uomo grigio

Storia del Genere Umano è nell’ordine la prima delle Operette Morali di Giacomo Leopardi. Il libro, che raccoglie 24 componimenti in prosa, è stato composto tra il 1824 e il 1832 e rappresenta la summa del pensiero leopardiano.

Seguendo le tracce del pensiero del grande scrittore, poeta e filosofo di Recanati, ripercorreremo per intero il sentiero tracciato dalle Operette soffermandoci non sullo stile, fiumi di inchiostro sono stati versati sul Leopardi da personalità assolute del mondo della cultura italiana e non solo, ma sulla modernità del suo pensiero e sul messaggio che possiamo ricavarne al giorno d’oggi.

Probabilmente le Operette, oltre a rappresentare un’opera di importanza capitale per la storia della letteratura italiana, sono al tempo stesso una testimonianza fondamentale del pensiero di uno dei più importanti filosofi che l’Italia abbia mai conosciuto.

La storia del genere umano, operetta scritta interamente a Recanati nel 1824, rappresenta una introduzione al mondo descritto nel proseguo del volume. Per dare corpo a questa sorta di prologo Leopardi utilizza una formula molto collaudata: il mito.

“Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini, e fossero nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti favoleggiarono dell’educazione di Giove. E che la terra fosse molto più piccola che ora non è, quasi tutti i paesi piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi non vi si scuopre. Ma nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra modo e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, ma infiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria; pascendosi oltre a ciò di lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti, crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità.”

L’incipit ci disegna una situazione idilliaca, tipica della tradizione culturale di stampo Cristiano che vuole il mondo come un paradiso terrestre prima della cacciata. Su questo punto però ci sono già degli elementi di rottura. Leopardi mette subito in chiaro che le dimensioni della Terra sono inferiori a quelle attuali e che la natura offriva molto meno di quello che conosciamo oggi e che nonostante ciò gli uomini erano felici perchè consideravano la vastità di tutto ciò che li circondava come infinito. Tutto qui? Non mi pare affatto.

La sensazione che si ha leggendo questa opera è che si tratti di una uscita dalla caverna di Platone per entrare nella piena luce del sole. Lo stadio primordiale a cui fa riferimento il nostro Giacomo sembra essere quello delle credenze, false e acritiche, verso sistemi che sono per loro stessa natura retti su una fede incrollabile verso qualcosa. Un metodo di ricerca inesistente, ma con la nascita del dubbio che cresce di pari passo con la crescita e lo sviluppo del genere umano.

Così consumata dolcissimamente la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più ferma, incominciarono a provare alcuna mutazione.[…]Andavano per la terra visitando lontanissime contrade, poiché lo potevano fare agevolmente, per essere i luoghi piani, e non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e dopo non molti anni, i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi, e non così larghi che fossero incomprensibili; e che tutti i luoghi di essa terra e tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi gli uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala contentezza di modo che essi non erano ancora usciti della gioventù, che un espresso fastidio dell’esser loro gli aveva universalmente occupati. E di mano in mano nell’età virile, e maggiormente in sul declinare degli anni, convertita la sazietà in odio, alcuni vennero in sì fatta disperazione, che non sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale in altro modo, se ne privarono.”

La voglia di conoscenza comincia a farsi largo e, in territori ancora vergini perchè inesplorati dalle possibilità del pensiero, si aprono consapevolezze che hanno origine dalla cognizione del limite non solo di ciò che circonda l’uomo, ma anche dell’uomo stesso. Questa consapevolezza causa la nascita del suicidio, quasi come una risposta alla esigenza di infinito che attanaglia l’uomo nella sua maturità.

Deliberato per tanto Giove di migliorare, poiché parea che si richiedesse, lo stato umano, e d’indirizzarlo alla felicità con maggiori sussidi, intendeva che gli uomini si querelavano principalmente che le cose non fossero immense di grandezza, né infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte imperfette, e pressoché di una forma; e che dolendosi non solo dell’età provetta, ma della matura, e della medesima gioventù, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente di essere tornati nella fanciullezza, e in quella perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non potea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della natura, ed a quegli uffici e quelle utilità che gli uomini dovevano, secondo l’intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre.

Giove decide di migliorare la condizione degli uomini dando sfogo al loro bisogno di infinito, per questo amplia lo spazio e il mondo. A questo punto sorge una domanda: è Giove che crea tutto questo, o sono gli uomini a creare Giove dando sfogo alla loro necessità di trascendenza per evitare di fare i conti con la consapevolezza del limite? Di fatti Giove non può condividere la propria infinitezza con gli uomini, che sarebbe il presupposto per una nuova delusione. L’unica soluzione per il genere umano potrebbe essere quella di tornare sui propri passi, ossia nello stadio primordiale. Purtroppo tutto questo non è possibile, anche per stessa ammissione del dio creatore/creato Giove.

Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale“.

Tra le creazioni di Giove compare il mondo dell’inconscio. Ma questa creazione per l’uomo che ha intrapreso il cammino della conoscenza non è una novità, ma la consapevolezza di uno spazio che è in odore di infinito in possesso di tutti gli uomini. Ma questo non basta. Occorre mettere in discussione sino in fondo le fondamenta del pensiero sino a spingersi verso l’empietà nei confronti della divinità portatrice di ordine. Ma il voler conoscere la natura, non vuol dire controllarla ed infatti ecco che arriva il diluvio che è al tempo stesso sia un momento di rovina del genere umano che di purificazione delle malattie dettate dai percorsi fallaci sin qui seguiti. Nasce la necessità di fare fronte comune contro i mali che minacciano la vita e si presenta l’esigenza della vita sociale come fonte di crescita e sviluppo del genere umano. Dal vivere comune si sviluppano nuove necessità concettuali, definite da Giove come fantasmi, che hanno il compito di mantenere inalterati gli ordini presenti nelle strutturazioni create. Ma continua a farsi forza la necessità di arrivare alla “Verità”.

Così rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo solamente Amore, il manco nobile di tutti, Giove mandò tra gli uomini la Verità, e diedele appo loro perpetua stanza e signoria. […] 

L’approdo della verità mortifica molto l’animo degli uomini perchè ne sottolinea ancora una volta il limite e la fragilità, ma si arriva ad una consapevolezza nuova: la verità non è nella divinità, ma posta al di fuori di essa.

Non è un caso se Monaldo Leopardi abbia messo le Operette Morali tra le opere proibite.

 

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