DIALOGO D’ERCOLE E DI ATLANTE
Lascia un commento28 novembre 2014 di vincenzosardiello
Continuiamo il nostro viaggio nel mondo delle Operette Morali di Leopardi approdando al “Dialogo d’Ercole e di Atlante”.
Questa seconda Operetta è stata scritta nel febbraio del 1824 interamente a Recanati.
“Ercole. Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante. Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di Giove. Ma il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più; e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la porrei sotto l’ascella o in tasca, o me l’attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n’andrei per le mie faccende.”
L’apertura del testo mette già sotto i riflettori la natura dialogica del racconto. Leopardi utilizza una struttura narrativa che ci permette di riprendere dal basso tutte le dinamiche dell’azione. Troviamo Ercole che, su ordine di Giove, si reca da Atlante per sostituirlo nel sostegno del peso del mondo affinché questi possa riposare per un pò.
Atlante risponde sostenendo che il peso del mondo è così diminuito negli ultimi tempi che non fa alcuna fatica e che, anzi, se non fosse costretto da Giove a mantenere quella posizione potrebbe tranquillamente sostenerlo mentre compie altre azioni.
Appresa questa novità cominciano tra i due interlocutori una serie di supposizioni sulle cause di questa leggerezza e le possibili soluzioni, sino ad arrivare alla conclusione di provare a muovere questa palla.
“Atlante. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perché tu sei gagliardo e coll’arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e l’Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne nascesse una guerra.
Ercole. Per la parte mia non dubitare.
Atlante. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perché l’è guasta la figura.
Ercole. Via dàlle un po’ più sodo, ché le tue non arrivano.
Atlante. Qui la botta non vale, perché ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento, perch’è leggera.
Ercole. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.
Atlante. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non balza d’in sul pugno più che un popone.
Ercole. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.
Atlante. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch’ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei venuto.
Ercole. Così falsa e terra terra me l’hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se m’avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima e mostra che tutti dormano come prima.
Atlante. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione“.
La palla cade. Non succede nulla.
Un dialogo fresco, frizzante, molto ironico, che però pone l’accento su due tipi di leggerezza: la prima quella degli uomini che, secondo la critica leopardiana, hanno perso di vigore e peso morale, la seconda quella spirituale di chi dovrebbe vegliare sulla loro vita.
Sul primo punto la critica tradizionale ha speso fiumi di inchiostro ed è quindi superfluo aggiungerci qualcosa, sul secondo, invece, ci sono aspetti interessanti che meritano di essere approfonditi.
I due personaggi non si preoccupano delle conseguenze del loro gesto per il genere umano, ma hanno in mente solo le conseguenze che possono riguardare la loro esistenza. Accade così che Atlante riprenda immediatamente la terra sulle sue spalle non perché chiamato da un dovere morale ma per fuggire una possibile punizione.
Pare evidente una presa di posizione molto forte sul concetto di Provvidenza che, mentre nel Manzoni ha un ruolo determinante per la storia umana, in Leopardi assume i contorni sfumati dell’indifferenza. La centralità dell’essere umano viene eliminata dall’universo e la scomparsa della solidità dei valori e del pensiero relega l’uomo verso un inevitabile oblio.
La lettura del gioco dei due può però anche essere interpretata ad un livello inferiore perché si presta bene come una allegoria del concetto di potere. I due, che hanno un potere indiscusso nei confronti della terra, possono fare qualsiasi cosa senza che gli uomini reagiscano.
La passività, che è tipica di una società sazia e svuotata dai valori e dalla consapevolezza di sè, conduce inevitabilmente a conseguenze negative per tutti.
Bisogna reagire e far riacquistare al nostro spirito e alla nostra mente pesantezza altrimenti la libertà resterà solo una utopia.
I primi a dubitare della giustezza degli uomini dobbiamo essere proprio noi.