DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE
Lascia un commento8 febbraio 2015 di vincenzosardiello
Undicesimo appuntamento con le Operette Morali di Giacomo Leopardi. “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”, composto nella tarda primavera del 1824, è un omaggio di Leopardi al grande poeta autore della Gerusalemme Liberata.
Il dialogo prende spunto da un episodio specifico della vita del Tasso e, più precisamente, dalla prigionia a cui fu costretto a Sant’Anna. Qui il poeta soggiornò per ben sette anni tra il 1580 e il 1586 nella cella poi divenuta nota come la Cella del Tasso.
Durante i primi tre anni, i più duri, un isolamento totale e una continua serie di privazioni misero il seria difficoltà il poeta che dicerie vogliono dialogasse con uno spirito per passare il tempo.
Leopardi immagina proprio uno di questi dialoghi ed ovviamente inserisce nelle argomentazioni i grandi temi che più gli sono a cuore.
“Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?
Genio. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non sieno angeli.
Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.
Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
Tasso. Gran conforto: un sogno in cambio del vero.
Genio. Che cosa è il vero?
Tasso. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.
Genio. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai.
Tasso. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?
Genio. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far libazioni a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevano a quest’effetto intagliata in su’ piedi delle lettiere. Così, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo, l’ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
Tasso. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell’animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso ridurre.”
Il primo tema affrontato è il rapporto tra sogno e realtà, o se preferiamo tra mondo immaginato e mondo reale. Solo nel sogno è possibile concretizzare ciò che nella realtà è impossibile e costruire un mondo differente rispetto a quello in cui si svolge la vita quotidiana. Su questo punto sembrano molto forti le suggestioni dettate dal dramma del 1635 di Pedro Calderón de La Barca “La vita è sogno”, in cui viene affrontato proprio il rapporto tra la realtà onirica e quella della vita quotidiana.
“Che è mai la vita? Una frenesia. Che è mai la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione… E il più grande dei beni è poi ben poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e gli stessi sogni son sogni!”
Ma se il piacere è raggiungibile sono attraverso il sogno, allora bisogna vivere solo per sognare? La domanda del Tasso è profonda e lascia presagire l’impossibilità che ciò accada e che quindi il piacere non sia un qualcosa di raggiungibile e perseguibile in maniera continuativa.
“Genio. Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere?
Tasso. Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.
Genio. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giunger dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso. Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?
Genio. Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.
Tasso. Che e quanto dire e sempre nulla.
Genio. Così pare.
Tasso. Anche nei sogni.
Genio. Propriamente parlando.
Tasso. E tuttavia l’obbietto e l’intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.
Genio. Certissimo.
Tasso. Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento.
Genio. Forse.
Tasso. Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?
Genio. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.
Tasso. Io per me ti giuro che non lo so.
Genio. Domandane altri de’ più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio.
Tasso. Così farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.”
Ma che cosa è questo piacere? E’ un desiderio irraggiungibile, qualcosa che si conosce solo in linea teorica e di cui non si riesce ad afferrare il contenuto, ma è anche l’obiettivo dell’esistenza. La vita perseguendo continuamente un oggetto irraggiungibile si trasforma in uno stato violento in cui al presente è impossibile coniugare la realtà del piacere. I momenti di piacere vengono così coniugati al passato o al futuro. L’idea di vivere nel piacere continuo diventa una chimera irraggiungibile. Gli spazi vuoti vengono così colmati dalla noia e dal dolore che lentamente uccidono l’uomo.
Sembra di leggere Schopenhauer:
“La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia,
passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.”
“Genio. Che cosa è la noia?
Tasso. Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vòto alcuno; così nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.
Genio. E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, e composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.
Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio. Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Tasso. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell’oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcun parte il carico della noia.”
Ma come potremmo definire la noia? Tasso su questo non ha dubbi avendone abbondante esperienza diretta: la noia è tutto ciò che copre gli intervalli tra i piaceri e i dispiaceri della vita. L’unico antidoto funzionante sembra essere il dolore, ma Tasso dichiara apertamente che preferisce essere schiacciato dalla noia anzichè soffrire.
Il dialogo si conclude con una riflessione sul concetto di adattamento alle situazioni. In particolare nella situazione di prigionia in cui è ridotto il Tasso. In questo passo troviamo già il germe del concetto di “acclimatamento” che sarà poi sviluppato in pieno novecento da Thomas Mann.
Un dialogo che assorbe e impartisce lezioni alla cultura europea. Leopardi si dimostra sempre di più un pilastro del pensiero non solo italiano.